Pubblichiamo articolo a firma di Giordano Gomato, che ringraziamo per la gentile concessione, analista indipendente in relazioni internazionali, esperto di diplomazia, macroeconomia e geopolitica energetica. Ha lavorato per ambasciate, organizzazioni internazionali e partecipate dello Stato sul tema Iran e operazioni congiunte israelo-americane.
La Repubblica Islamica d’Iran, ferita e indebolita come mai prima d’ora, si trova oggi sull’orlo di un cambiamento strutturale. Quello che appariva un regime monolitico e impermeabile, si è rivelato vulnerabile, disorganizzato e impreparato di fronte alla forza congiunta delle operazioni israeliane e statunitensi delle ultime settimane.
Non si è trattato solo di raid aerei: è stata un’operazione chirurgica e multidimensionale che ha disintegrato pezzo dopo pezzo l’apparato più leale alla Guida Suprema Ali Khamenei. In pochi giorni, Israele ha fatto piazza pulita di fedelissimi: vertici dei Pasdaran, figure strategiche dell’apparato nucleare e missilistico, e consiglieri storici del leader. Il Mossad ha agito con
efficienza militare e intelligenza psicologica: non solo eliminazioni, ma anche penetrazioni cognitive, come le telefonate agli ufficiali dell’IRGC che li spingevano a disertare o fuggire.
La leadership è ora visibilmente in crisi. Fonti interne indicano che Khamenei non goda più di buona salute. È circolata la voce di un’offerta russa di residenza protetta – proprio come avvenne nel 2024 per Assad, sostituito da Ahmed al Sharaa, ribelle radicalizzato al quale è stato gentilmente chiesto di posare il fucile e mettersi un completo. Non è solo simbolismo: perfino
Mosca, alleata tradizionale, sembra contemplare l’implosione del regime.
In fin dei conti, il potere in Iran non è un blocco unico, ma una rete intricata e competitiva: Guida Suprema, Guardiani della Rivoluzione, Consiglio dei Guardiani, magistratura, clero e intelligence. Anche i Pasdaran, apparentemente compatti, sono attraversati da fratture profonde: da un lato l’anima militare-ideologica legata alla Guida, dall’altro un’ala pragmatica,
interessata alla stabilità economica e al mantenimento di potere. Questo equilibrio, oggi, scricchiola.
A conferma della confusione ai vertici, la nomina di Habibollah Sayyari – ammiraglio della Marina regolare – a capo delle forze armate ha suscitato stupore. Primo comandante esterno all’IRGC in un momento di crisi: una scelta simbolica e forse disperata, che riflette il vuoto interno o l’impossibilità di trovare una figura unificante tra i Pasdaran.
In passato, un simile scenario avrebbe portato a un golpe. Oggi, la rete di alleanze e l’interconnessione globale rendono ogni passo più delicato. Il destino dell’Iran non è più solo nelle mani dei suoi Ayatollah o dei suoi generali, ma dipende anche dagli equilibri tra Washington, Pechino, Mosca e Tel Aviv – con l’UE, ancora una volta, marginale.
Tra questi, la Cina ha avuto un ruolo cruciale nel disinnescare la crisi, convincendo Teheran a non chiudere lo Stretto di Hormuz, da cui transita il 20% del petrolio mondiale. Un gesto utile per la stabilità globale, certo, ma ancor più per proteggere i propri approvvigionamenti energetici. L’effetto è stato immediato: il WTI è crollato di 12 dollari in un giorno. Una mossa che ha il sapore del ridimensionamento strategico iraniano – coerente, tra l’altro, con la narrativa energetica trumpiana.
La risposta di Teheran è stata debole: un attacco dimostrativo a basi USA in Iraq e Qatar, preceduto da avvisi ufficiosi, e senza conseguenze reali. Un’azione simbolica, per salvare la faccia dinanzi a un’opinione pubblica interna stremata.
Trump ha dichiarato che l’Iran non avrebbe spostato materiale nucleare da Fordow prima dell’attacco statunitense. Ma fonti d’intelligence europee smentiscono: i 408 kg di uranio arricchito al 60% sarebbero stati rimossi in anticipo. L’AIEA tace. Nel caos, qualcuno ha evidentemente avuto l’ordine – o l’interesse – di mettere al sicuro quel materiale.
Nel frattempo, Mosca ha ordinato il ritiro di numerosi tecnici russi da Bushehr e da altri siti sensibili. Un segnale chiaro: la Russia resta alleata di Teheran, ma si defila tatticamente, temendo un’escalation incontrollabile. A peggiorare il quadro, il direttore dell’AIEA ha prima affermato che l’Iran era vicino alla bomba, poi ha ritrattato tutto, naturalmente dopo l’operazione americana. Teheran ha risposto annunciando l’uscita dal sistema di controllo dell’Agenzia. Una mossa forte ma rischiosa: suona come un’ammissione implicita di aver superato i limiti consentiti per l’arricchimento civile. Un autogol diplomatico? Forse. Ma anche una necessità politica interna.
Il dossier nucleare iraniano ha assunto tratti simili a quello delle presunte armi chimiche di Saddam Hussein: una tensione costruita su sospetti, con o senza prove. Che l’Iran abbia davvero una capacità militare atomica è ormai secondario: il sospetto è irreversibile. Intanto, Israele – accusatore principale – resta fuori dal TNP, non apre ai controlli e conserva un arsenale presunto ma incontrollabile. Per molti in Iran, questa è l’ennesima ingiustizia sistemica.
Le fragilità interne sono ormai evidenti. I Pasdaran, un tempo simbolo di potere, appaiono oggi disorganizzati e privi di strategia. Il regime fatica a gestire le conseguenze dell’isolamento e delle sanzioni. I negoziati futuri si preannunciano duri: le richieste internazionali superano quanto la leadership può realisticamente accettare senza collassare.
Il Paese è sull’orlo del collasso economico. L’inflazione è fuori controllo, la moneta ha perso oltre l’80% del suo valore in pochi anni, la disoccupazione giovanile sfiora il 30%. Molte città vivono razionamenti di elettricità e acqua. In alcune regioni, la situazione assomiglia più a uno stato d’emergenza permanente che a una condizione di normalità. Se si osserva la traiettoria
dell’Iran, si potrebbe azzardare un paragone con la Corea del Nord: un regime sopravvissuto al prezzo dell’isolamento totale, della repressione e della militarizzazione estrema. Ma l’Iran ha una società molto più dinamica, giovane e culturalmente aperta. E difficilmente accetterà un destino simile senza reagire.
Due generazioni di iraniani non hanno conosciuto altro che la teocrazia. Ma i più anziani ricordano un Iran diverso. Le proteste del 2024 lo hanno dimostrato: la memoria pesa. E il vento del cambiamento è tornato. Reza Pahlavi, figura carismatica per la diaspora, difficilmente sarà la risposta. Il cambiamento, se arriverà, partirà dall’interno: da apparati stanchi, infiltrati, opposizioni clandestine. L’era dell’intoccabilità è finita.
Il crollo del regime iraniano non è un evento improvviso, ma il risultato di una strategia pianificata. Le azioni israeliane indicano una preparazione pluriennale per destabilizzare e favorire un cambio interno. Anche senza transizione immediata, il sistema è compromesso. Il rischio ora è che si vada verso un collasso disordinato o una guerra civile, comunque logorante per l’establishment.
Resta però l’interrogativo cruciale: e se fossero solo gli israeliani a volere davvero la fine del regime? E se Stati Uniti, Russia e Cina preferissero un equilibrio instabile ma utile ai propri interessi? In tal caso, Israele continuerebbe da sola, senza attendere appoggi né autorizzazioni? Una strategia rischiosa, ma coerente con la sua dottrina di difesa preventiva. Una cosa è certa: l’Iran post-2025 non sarà mai più quello di prima.