E’ stato il giorno, ieri in quel di Lecco, di Emanuele Severino e Boris Pahor. I due intellettuali, infatti, l’uno filosofo “eterodosso”, l’altro scrittore sloveno degli esclusi, hanno ricevuto, davanti a un buon pubblico e nella cornice dell'Auditorium Casa dell'Economia di Lecco, rispettivamente il Premio alla Carriera e il Premio Romanzo storico, nell’ambito del Premio Letterario “Alessandro Manzoni” – Città di Lecco.
Particolarmente sui generis la lectio magistralis di Emanuele Severino, filosofo di indubbio valore, parso però meno convincente nel tentativo di far aderire le proprie teorie circa l’essere, la verità, il divenire, al campo culturale e ideale (la Provvidenza, l’azione salvifica o atterrente della gloria divina nella storia) di quell’Alessandro Manzoni cui, in fin dei conti, il premio è dedicato. Insomma, nessun problema, come dice il regolamento del Premio, a riconoscere in Severino, meritatamente, “un’ importante personalità della cultura europea che abbia in modo visibile perseguito e rappresentato ideali di alto impegno culturale e civile”.
Ma nemmeno constringiamolo, Severino, (proprio lui che ha parlato dell’impossibilità dell’esistenza del Dio cristiano nelle forme costituite dalle culture del “divenire”, e della conseguente impossibilità per un tal Dio di creare o annichilire secondo la propria volontà esseri umani “eterni”) a citare, proprio nel cuore della sua lectio magistralis i versi manzoniani del 5 Maggio: “Quel Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola”, capisaldi della concezione manzoniana della grazia divina quale agente che tutto può nella storia e nella salvezza umana da essa dipendente.
“Oggi la civiltà della tecnica – questo ad ogni modo il discorso di Emanuele Severino – è lontana dal mondo del sacro. Parlo di destinazione della tecnica al dominio perché non sarà più la politica o la religione a servirsi della tecnica, ma la tecnica di esse. E il sacro? C’è una solidarietà di fondo, una sorta di carattere tecnico del sacro e sacrale in quella tecnica che ha sostituito il sacro nel compito di guidare i popoli. Il sacro è tremendum et fascinans, diceva Otto.
Questa vicinanza tra tecnica e sacro possiamo scorgerla nella fase iniziale dell’umanità: l’uomo – argomenta Severino – inizia a volere, a sentire la propria volontà di trasformare il mondo, perseguimento della quale è garanzia di vita, ma sbatte contro una barriera che non gli consente di ottenere ciò che vuole. Il timore di questa barriera, di questa potenza, è il tremendum, l’inflessibile che non si lascia sfondare. Ognuno di noi tuttavia vive se, frangendo la barriera, si impadronisce delle parte che emergono dalla frantumazione: non possiamo volere il tutto, ma iniziamo a vivere dinanzi a un mondo frantumato. In tutte le mitologie emerge tale smembramento del sacro e la volontà può vivere modifcando le membra del sacro. In questo c’è il carattere tecnico del sacro: la matrice che smembrandosi rende possibile la potenza”.
Non mancano accenni alle idee cardine dell’essere e della verità: “Questo carattere tecnico che sottintende la caducità delle cose sta portando su di sé la storia del mondo e dell’occidente. Tutti sono convinti che la realtà sia divenire altro. Ma il qualcosa che diventa altro lo fa squartando sé e invadendo l’altro”.
“Se la verità è l’ad quem – conclude Severino – il fine del nostro agire, allora il cammino che compiamo per arrivarci è non verità, è fallace. Se la situazione è benigna, al contrario, sarà la verità che viene a noi, Ma se noi stessi non siamo verità, essa non può arrivare a noi. La verità giunge a noi solo se siamo verità. Siamo, in definitiva re che si credono viandanti. Verrà il tempo – questa la conclusione davvero poco “manzoniana” - in cui i popoli si renderanno conto di non essere viandanti e non aver bisogno di tecniche e di dèi”.
Premiato per la sezione Romanzo Storico, invece, Boris Pahor, quasi centenario scrittore sloveno, autore di un libro “Figlio di nessuno” che è un autoritratto di “confine”, non solo geopolitico tra Italia e Slovenia, ma anche culturale tra libertà e dittatura, umano tra radici e solitudine, e molto altro ancora.
Decisamente manzoniana, stavolta sì, la dedica di Pahor: “Questo libro non è solo la mia vita, ma anche una verità storica, scritta nel nome degli umiliati e degli offesi, con uno stile semplice che non cerca stilismi, ma una letteratura comprensibile e leggibile. Manzoni per me è sempre stato l’esempio – spiega Pahor, presente in sala con Cristina Battocletti – di chi scriveva per gli umiliati e gli offesi. Rimbaud parlava di “milioni di Cristi”.
I morti innocenti della seconda guerra mondiale sono tutti dei Cristi veri. Eppure l’Europa se ne frega di questi morti – attacca Pahor – non parla del campo di concentramento di Dora. Nei libri di storia, vi dico – conclude Pahor con somma aderenza al prologo manzoniano – non parliamo di Montgomery o Napoleone o Alessandro. Parliamo piuttosto di questi eroi della libertà”.