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La poetessa lecchese Francesca "Fenicia" Manzoni

In questa settimana che segue l'8 marzo, con la nostra rubrica vogliamo ricordare una personalità della cultura lombarda un po' dimenticata, ma non per i lecchesi di San Giovanni il cui nome richiama subito una via: Francesca Manzoni.

 

Nata a Barzio il 10 marzo 1710 da Cesare Alfonso Manzoni, giureconsulto, come raccontano gli storici, già all'età di 12 anni era in grado di leggere i classici latini e si avviava allo studio delle lingue francese, spagnola e, soprattutto, greca. Alla fame di conoscenza corrispose presto anche la pratica della scrittura e all'età di vent'anni, compose due drammi per musica, mentre, tre anni più tardi, una tragedia in cinque atti, «Ester», pubblicata a Verona nel 1733. Queste opere, dedicate all'Imperatrice Elisabetta Cristina, moglie di Carlo VI, le valsero il titolo di «Poetessa dell'Imperatrice».

 

Parente del ben più famoso Alessandro, che ignorava di discendere anch'egli dallo stesso Giacomo Manzoni, Francesca, che passava dalle paterne case di Barzio e Cereda, sopra San Giovanni, a Milano, grazie ai suoi versi era diventata socia della Colonia Milanese dell'Accademia dell'Arcadia, nella quale era conosciuta col nome di Fenicia, e poi dell'Accademia dei Trasformati.

 

Casa Manzoni a Cereda

Un punto di unione tra queste due Accademie era il canonico Giuseppe Candido Agudio che nel suo palazzo di Malgrate ospitava amici e consoci. Tra questi il più famoso fu senz'altro il Parini che, secondo alcune fonti, qui avrebbe composto, in anni successivi a quelli della vita di Francesca, alcuni brani del «Mattino», parte iniziale della sua opera più famosa, «Il giorno».

 

Agudio, intorno al 1750, incaricò il pittore Benigno Bossi di fare il ritratto della Manzoni che oggi è conservato alla Pinacoteca Ambrosiana.

 

Sembra che Francesca conobbe qui il suo futuro marito, il veneziano Luigi (o Alvise) Giusti, che si trovava alla corte asburgica di Milano in qualità di letterato. Si sposarono nel 1741 ed ebbero due figli, Pietro Paolo e Angiola. Francesca morì il 28 giugno 1743 nella sua casa di Cereda dieci giorni dopo la nascita della figlia e fu sepolta, accanto al padre, nella chiesa di San Giovanni. Il marito si fece sacerdote divenendo segretario di Giovanni Luca Pallavicini, genovese al servizio dell'Impero, che seguirà a Vienna tra 1762 e 1765, portando con sé anche le carte della moglie.

 

Ma che cosa scrisse Francesca, oltre alle opere già citate, di sfondo biblico? Tradusse in italiano i «Tristia» di Ovidio, scrisse poesie in italiano e in latino, studiò geometria e filosofia e raccolse molto materiale per scrivere, ma non ne ebbe il tempo, una «Storia universale di tutte le donne erudite d'ogni secolo e d'ogni nazione».

 

Molti dei suoi amici Arcadici e Trasformati scrissero di lei, sia in vita che compiangendone la morte prematura («Dotta Fenicia, che dal cielo or m'odi,/ tornanmi a mente i tuoi soavi accenti,/ tornanmi a mente spesso i tuoi modi...) e proprio uno di essi, Carl'Antonio Tanzi, in una sua bosinata, cioè composizione poetica popolare, scritta in dialetto, scriverà ai suoi consoci che «Ve mostrarev che anch la Manzona/ l'ha scritt in lengua buseccona», cioè che pure Francesca si era impegnata nella scrittura in dialetto milanese.

 

Alcune di queste poesie, dimenticate per lungo tempo, sono state riscoperte nella Biblioteca Civica di Rovereto, grazie alla citazione di esse contenuta in un'annotazione a mano su una raccolta di poesie del 1756. Si tratta di cinque sonetti e di cinque testi lunghi. La caratteristica principale di questi, secondo il professor Felice Milani che li ha rintracciati a Rovereto e confrontati con altri, fino ad allora anonimi, conservati a Pavia, è che Francesca assume in essi la maschera di Baltramina, personaggio delle commedie milanesi di Carlo Maria Maggi, sostituendo con essa il maschile Bosin, delle bosinate. Francesca stessa chiama le sue opere «baltraminate» rivendicando, se vogliamo, la propria originalità e specificità.

 

Frontespizio di “L'Ester”

 

In una sua lettera, del 23 dicembre 1733, Francesca Manzoni è anche testimone di un fatto d'importanza storica: l'assedio del castello di Milano da parte degli eserciti gallo-sardi nel corso della guerra di successione polacca. Il 13 dicembre Carlo Emanuele III, Re di Sardegna, e il comandante in capo dell'armata francese, Maresciallo Villars, entrarono solennemente a Milano. Il 19 dicembre il Maresciallo Villars offrì una cena alla nobiltà di Milano. L’orchestra ricevette il segnale di apertura delle danze dal primo colpo di cannone sparato per il bombardamento delle fortificazioni del Castello.

 

All'amico Marcantonio Zucchi, tra i più famosi poeti estemporanei dell'epoca, Francesca scrisse così: «Se foste qui, che direste voi mai! Domenica mattina si cominciò a dar fuoco ai pezzi della gran batteria, e tutti i primi colpi fuggirono in città senza toccare il Castello; alla sera si udirono pure altri pochi colpi similmente fischiare per l'aria sopra del nostro capo, poi la mattina e tutto il giorno di lunedì e la notte più di tutto e ieri fino verso sera fu un continuo volar di palle, e cadere ora in un luogo ora in un altro della città, e da presso e da lungi, rompendo e tetti e muri e camini e quanto incontrano [...] questa mattina poi ha cominciato come gl'altri giorni la batteria e mentre io sto a voi scrivendo, ed ho fatto questo debole sonetto, quale dal cuore alla penna m'è venuto, volano e cascano palle qui intorno ed io le mi sento sibilare sopra la casa passando, come tanti serpenti, ed un quarto d'ora fa ne ho sentito cadere una sopra il tetto della vicina chiesa [...] Io per me non ho timore e la notte di lunedì venendo il martedì, che fu la più orrida, io non andai a letto fino verso le undici, standomene al mio tavolino francamente; e così averei fatto questa notte passata e farei ancora, se per ubbidire non avessi dovuto portarmi abbasso a dormire per sicurezza o per minore pericolo.»

 

Il professor Felice Milani, che porta questa citazione, assicura che «la grafia della Manzoni, in mezzo al bombardamento, non denuncia affatto una mano tremante.»

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